lunedì 6 luglio 2009

FARE UN BUON USO DELLE MACERIE. COMPORRE UN NUOVO SOGGETTO POLITICO ?

Da qualche tempo a questa parte, si prova un terribile fastidio leggendo, in interviste o commenti sull'attualità, le parole dei “dirigenti” della diaspora di RC. A differenza del passato, quando questo partito era un carico di promesse per molti militanti e il riferimento di una opinione politica non trascurabile, si fa fatica anche solo ad interloquire. L'impressione che domina e rende difficile l'avvio di un discorso è che parlino d'altro, alcuni come se nulla fosse successo, altri con una idea tutta notarile della crisi della sinistra. Perché è della crisi che si dovrebbe parlare, tentare di rispondere a domande e incertezze, dare senso a quel che accade senza cedere alla vulgata e agli ideologismi.

E' vero che scontiamo tutti gli effetti di una sconfitta storica e dunque anche il corso delle cose e delle idee imposto dai nostri avversari negli ultimi decenni, ma dovremmo anche soffermarci sulla incapacità che ne è seguita di fare un “buon uso delle macerie” (Fortini). L'esempio più prossimo, la partecipazione di Rc al governo di Prodi. Si può sottoscrivere il programma di guerra più impegnativo dalla Liberazione ad oggi senza vendere l'anima al diavolo ? Si, si deve prima evocare il diavolo, in questo caso Berlusconi, il neoliberismo/guerra, e poi agire di conseguenza, vale a dire con gli spergiuri piuttosto che con l'intelligenza politica. Si può essere così coatti da non riuscire a mettere in moto un dibattito vero tra qualche migliaio di militanti ? Si, si deve prima imbalsamare il libero dibattito in rapporti di potere. Vien voglia di dire “il potere corrompe”, suona troppo moralistico ma l'affermazione suscita reazioni più positive di tante altre in cui gli aggettivi vengono usati come clave sulla testa dell'avversario. Già questo genere di riflessioni, in particolare quelle sulla natura della crisi della sinistra, dovrebbe in qualche modo (dibattiti, seminari, letture) far parte del nostro impegno.

Le conclusioni che si possono trarre da questo approccio, sono sinteticamente, le seguenti.

  1. Ci muoviamo come minoranze, piccoli gruppi di intellettuali senza egemonia, le cui parole restano senza eco perché non sono in sintonia con la cultura dominante e con il senso comune. Allora il nostro parlare deve essere un altro racconto delle cose, il frutto di una cura assidua del linguaggio e dell'inchiesta, l'altro punto di vista che la stessa realtà sociale rende possibile.

  2. Siamo alle prese con un nuovo inizio e allora dobbiamo essere assolutamente attenti ai conflitti che già adesso, su tutto il pianeta, sono il laboratorio del pensiero (linguaggio, immaginario) e dell'azione (forme, finalità, risultati) di chi si oppone per necessità di vita e di libertà, all'ingiustizia, alla regressione sociale, alla soppressione delle condizioni “naturali” dell'esistenza. Il nuovo inizio non può essere il prodotto delle accademie, non ha un istante zero, è dentro un processo che può prendere una infinità di direzioni.

  3. Dobbiamo fare dei percorsi (non solo delle campagne elettorali) in cui sperimentare, su tutto lo spettro dei comportamenti umani (dal modo di consumare, di stare insieme, di organizzarci per una finalità pratica, di rappresentarci, di divertirci e di raccontarci), l'idea e dunque la pratica di una alternativa di società. Dobbiamo fare dei percorsi, interessati all'effetto accumulo, senza la fretta di definire a priori un “programma generale” o un modello generale.

Da queste prime conclusioni trarne altre non è difficile.

Dobbiamo “vederci”, essendo persone o gruppi, collettivi ed altro, come i protagonisti di una attività sociale, modesta quanto si vuole, portatrice di una critica, meglio ancora di un conflitto, piccoli quanto si vuole. Dobbiamo vederci come sperimentatori che riflettono sulle loro azioni e ne fanno bilanci e le raccontano ad altri favorendo relazioni inclusive. Chi organizza i GAS (gruppi di acquisto solidali) può far vivere relazioni con chi organizza un picchetto antisfratto, o chi organizza un evento “culturale”. Una lettura collettiva o una prova di teatro possono fornire utile materiale immaginario a chi sogna un'altra società, assai più di un direttivo di partito.

Quando diciamo partire dai contenuti, dobbiamo partire senza dissociazioni, sapere di che cosa stiamo parlando, essendo il più possibile vicini alla realtà di cui stiamo parlando. In relazione di “simpatia” con le persone che frequentano quella realtà, dobbiamo liberare le potenzialità che il neoliberismo annuncia ogni giorno e subito nega. Banalizzando (sull'opulenza e il fai da te), se nella quarta settimana io operaio di fabbrica o lavoratore intermittente o socio di cooperativa a tempo parziale non ho di che pagare il latte, il pane e un quotidiano (possibilmente il Manifesto) me li prendo, me ne riapproprio perché sono il frutto del mio “lavoro”. Già accade e le relative azioni vengono descritte come furti (nei bilanci dei supermercati). Il passo da fare è di organizzarle come azione collettiva e descriverle come riappropriazione del maltolto.

Questo “movimento” di singoli e collettivi, che muove da bisogni e valori negati per riaffermarli subito, che si racconta con un proprio linguaggio, che sceglie le forme del proprio esserci, dobbiamo intenderlo come una insopprimibile propedeutica alla politica, non un surrogato e nemmeno un complemento. “La sinistra o sarà sociale o non sarà” (Revelli). Questo per dire che la politica è una assunzione di responsabilità, un mettere in comune, un moltiplicare le buone relazioni; è l'idea che il governo/autogoverno della società è già all'ordine del giorno ma, allo stato presente delle cose, non può procedere dalla presa elettorale dei Parlamenti. E se il sogno è una alternativa di società, la società non può che essere di liberi ed eguali.

Quando diciamo partire dall'opposizione, dobbiamo intendere l'opposizione a quel che ci impone il neoliberismo, la guerra in primo luogo, le regressioni sociali, la soppressione delle condizioni “naturali” dell'esistenza e se questa opposizione deve assumere una forma politico/istituzionali lo deve fare senza negare se stessa in un realismo privo di valori e di principi. Il che vuol dire due cose, il luogo della politica nel senso fin qui detto, non è solo nelle istituzioni, è soprattutto nella società e nel comportamento delle persone che la compongono; inoltre non c'è nessuno che ha il monopolio della politica. Banalizzando, se il sindaco del Comune di Frinco ci propone una esperienza di democrazia partecipata, insieme all'idea che l'acqua e il suolo sono beni comuni, non fa nulla che si dichiari del PD, si condivide la sua proposta.

Con questo approccio ci interessa un percorso di formazione di un soggetto politico, di una assemblea di agitatori sociali, che vuole moltiplicare le sue buone relazioni, dare più forza alle azioni che già fa, e rappresentarsi nelle istituzioni. Questo soggetto politico non può essere nessuno dei partiti presenti, non può essere il riciclaggio del presente ceto politico e, ovviamente, non può avere come bussola l'elettoralismo e tutte le sue pratiche.

venerdì 23 gennaio 2009

Sinistra Critica e il partito

....

L'accelerazione verso la costituzione di un partito è quanto di meno convincente c'è nel documento del gruppo operativo nazionale. I risultati della sperimentazione di un anno, vissuto come associazione interna al movimento/movimenti, non si sono guadagnati neppure un cenno. Brutto segno, sembra che non si riesca ad andare oltre una dichiarazione di esistenza, il che ci lascia, come si dice, al palo, nonostante l'anno sia passato denso di avvenimenti.

(http://www.sinistracritica.org/content/obiettivo-smic-e-prossime-elezioni-il-coordinamento-di-sinistra-critica).

In più c'è un abbozzo di programma minimo che, in queste condizioni, riaffaccia le “astrazioni della politica” che si vogliono evitare. Si può parlare di programmi dimenticando l'uso ne è stato fatto in tempi recenti ? Con questo non si vuol dire che un uso diverso fosse possibile. Si vuol dire, più semplicemente, che alle condizioni date, qualunque esercizio attorno ad un programma si sarebbe trasformato in ritualismo elettoralistico.

I ritualismi elettoralistici non servono per riempire un vuoto di strategia. Vale a dire, non può essere eluso il problema di che cosa, percorso, condizioni, presenza di soggetti sociali attivi, ci deve essere tra un obiettivo e il potere di realizzarlo. Se quella cosa manca, bisogna applicarsi a quella affinché sia ricostruita o costruita ex novo. Il nodo della crisi della sinistra è questo.

In che modo raggiungere un determinato obiettivo di riforma, con quale esercizio di potere, è una domanda che ha attraversato, nel bene e nel male, tutta la storia del movimento operaio del 900; rovello di minoranze intellettuali spesso coincidenti con i gruppi dirigenti delle associazioni e dei partiti. Non è stato solo un esercizio intellettuale, il vero campo d'azione erano gli interessi materiali, ma soprattutto il ruolo e le culture delle varie classi sociali, nonché gli antagonismi che ne derivavano e il loro possibile esito.

Oggi, in questo Paese, una strategia nel senso su detto, e dunque un movimento politico in grado di porsi obiettivi di riforma, è in costruzione e i partiti della cosiddetta “sinistra radicale”, che la evocano, ne sono esclusi perché continuano a pensare di poterne avere il monopolio. D'altra parte ciò che affaccia il movimento altermondista è una intelligenza politica diffusa che, al livello più alto, non potrà essere costretta nella forma del partito. Così pure il movimento non potrà essere semplicemente rappresentato in queste istituzioni. Le esperienze di democrazia partecipata, che già ci sono e sono importantissime, lasciano aperto il problema essendo forme di partecipazione e di agire collettivo non di delega e rappresentanza.

Dunque la crisi della sinistra non è la divisione o la diaspora, quelli sono gli effetti maggiormente visibili, è invece la necessità di ricostruire un'alternativa di società nel vivo delle contraddizioni presenti, rinunciando a scorciatoie elettoralistiche che, allo stato attuale delle cose, possono solo confermare un regime sostanzialmente autoritario.

Questo compito non è disperante solo se si riesce a costruirne il senso attraversando gli antagonismi di cui la società è “levatrice”. Bisogna andare a questa scuola, riscoprire il ruolo delle minoranze intellettuali e l'importanza di “dare senso” a quel che accade. I partiti comunisti erano “datori di senso”, non semplicemente organizzazioni orientate alla presa del potere. Questa prerogativa è adesso più che mai necessaria considerando che il “pensiero unico” vale a dire il “dare senso” dei nostri avversari, è largamente egemone.

Anche questa prerogativa non può essere monopolio di un partito. Già adesso il movimento altermondista la attribuisce a persone singole, piccoli sodalizi, minoranze, comunità che “raccontano” un altro mondo (con originali immaginari e linguaggi) nel vivo delle contraddizioni sociali.

E' questa critica diffusa al presente sistema sociale e politico che ci deve interessare. Ci devono interessare tutte quelle esperienze, isolate quanto si vuole, in cui si affacciano pratiche di autogoverno, nel senso più lato del termine: dai conflitti sociali agiti in forma collettiva ai conflitti che si manifestano in tutto il campo dei comportamenti individuali. Sono conflitti “non autorizzati” e “fuori controllo”, che si sviluppano in gran parte fuori dalla retorica novecentesca e dai sui rituali, sono conflitti in cui può maturare un senso alle cose diverso da quello dominante.

Non siamo soli in questa impresa, iniziata con il movimento altermondista, i forum sociali, Genova e così via. Il “nuovo movimento operaio” non può nascere solo da noi e dall'esperienza politica europea alla quale “Sinistra Critica” sembra fare maggiormente riferimento. C'è un movimento “altermondista” non riconducibile ad uno, ricchissimo di esperienze quanto poverissimo di modelli di riferimento, un cumulo di esperienze che solo in America Latina ha assunto carattere nazionale e ha dato vita a forme particolarissime di potere popolare e di democrazia partecipata. Altrove, come da noi è ancora nella fase della sperimentazione, dell'accumulo, della costruzione di modelli e di senso.

In queste condizioni, costruire in fretta l'ennesimo partito prima ancora di essere una scelta suicida è una dichiarazione di impotenza. L'associazione deve fare un percorso in cui la sperimentazione del conflitto sociale e delle pratiche sociali alternative al modello dominante, siano il suo campo d'azione pratica e teorica (l'inchiesta, i seminari, una percezione non sommaria della realtà dell'associazione, la stessa raccolta di firme sulla legge di iniziativa popolare può essere uno strumento per questi esercizi).

Il risultato atteso deve essere un effetto accumulo, il crescere di una massa critica tale da estendere a parti sempre maggiori di società l'idea e la pratica di una alternativa. Stiamo già facendo questo, con altre realtà associative e di movimento diverse dalla nostra. E' questo che dobbiamo intendere quando parliamo di “livello più alto di iniziativa”: un livello più alto di conflitto e forme inedite di gestione del potere popolare.

Noi crediamo che sia ancora questo sperimentare il compito dell'associazione. Non condividiamo quindi l'ipotesi di una presentazione di liste alle europee.

I partiti sono dunque esperienze da buttare ? In periodi di crisi e di trapasso come questo sono più frequenti i dubbi che le certezze e soprattutto non c'è niente di fatale. Certo che se ci misuriamo con il dibattito di oggi ricaviamo solo un senso di spossatezza e di inutilità. RC una occasione l'aveva costruita e poi l'ha distrutta con la catastrofica esperienza governista. Quel che ne resta è paradossalmente diretto da uno dei maggiori responsabili di quella esperienza, un segnale non certo incoraggiante.

Resta, di positivo, l'eco di quella occasione perduta, che potrebbe però spegnersi definitivamente se, come sembra, “saltare il giro delle europee” venisse vissuto come un'ultima sponda e non come un'altra occasione per essere conseguenti nella scelta di opposizione più volte dichiarata.

giovedì 18 dicembre 2008

SCIOPERO GENERALE DEL 12 DICEMBRE

Messa alle strette da un governo che vuole trasformare il sindacato in una risorsa per le aziende, incalzata da una critica interna, della Fiom in particolare, che chiede di uscire da una concertazione che ha portato solo frutti amari come la precarietà, sollecitata da comportamenti antiunitari delle altre due confederazioni, la CGIL ha finalmente proclamato lo sciopero generale.

La piattaforma si può sintetizzare nella duplice richiesta di strumenti veri di difesa del reddito popolare e lavoro vero per costruire una alternativa al presente modello sociale; dove l'attributo vero sta per conforme ad un diritto. La piattaforma è di quelle che aprono una stagione di mobilitazione; non è che l'inizio, è proprio il caso di dirlo.

La scelta di convocare cortei ovunque, in tutte le città e in tutte le regioni, segue giustamente l'intenzione di attraversare tutte le mobilitazioni già presenti suol territorio, in particolare quella degli studenti ma non solo quella. In difesa dei beni comuni, contro il consumo di territorio, per la ripubblicizzazione dell'acqua, per il diritto all'abitare, nonché tutte le iniziative per sottrarre i comportamenti individuali alle suggestioni mercantili, tante azioni dirette che nello sciopero generale hanno potuto trovare conferma.

La decisione dello sciopero ha ottenuto consensi al di sopra delle aspettative, ha contribuito a diffondere una visione non alterata della crisi, ha favorito la presa di coscienza dei problemi. Non è ancora l'annuncio di una svolta nel comportamento pubblico delle moltitudini ma certamente un passo in quella direzione.

Tanti piccoli passi sono già stati compiuti, da persone singole, collettivi e associazioni, soggetti sociali che non chiedono deleghe o rappresentanza ma traducono in azioni concrete la loro critica al neoliberismo. Da questo punto di vista - dell'autogoverno e dell'agire secondo l'etica della responsabilità - la strada da percorrere è ancora lunga, ma se la crisi sociale peggiorasse, come è probabile, potrebbe essere percorsa in tempi brevi.

Redistribuire i redditi, riportare l'economia finanziaria al servizio di quella reale, soddisfare bisogni e diritti piuttosto che richieste del mercato, far funzionare una razionalità economica fondata su valori sociali come la pace, la solidarietà, la cooperazione, il mutuo soccorso, la tutela dei “beni comuni” e lo stop al consumo di energie non rinnovabili: sono i passi di un processo di alternativa sociale che possono risuonare nelle parole della politica, ma devono risuonare subito in pratiche di “riappropriazione del maltolto”.

Tutto bene dunque ? Niente affatto. Lo stato d'animo che la decisione della CGIL ha indotto nei militanti “di un altro mondo possibile” è stato espresso bene dall'intervento in piazza del compagno Falcone, ma è un sentimento che chiede di essere comunicato subito, un sentimento che chiede di essere confermato subito in azioni che siano già adesso delle risposte alla domanda di diritti e di vita dignitosa che sale da ceti popolari sempre più ampi.

Si dice giustamente tassare le rendite finanziarie, tassare i ricchi, perché è evidente che la crisi la stanno pagando i ceti popolari, ma perché non si dice almeno con la stessa forza e convinzione che si devono “ridurre le spese militari” ?

Un bilancio gigantesco di miliardi di euro che ogni governo, in spregio ai principi costituzionali, si preoccupa di aumentare o confermare per finanziare strumenti di morte e avventure di guerra; un bilancio che potrebbe essere riconvertito in bilancio di pace per finanziare lavori pubblici utili a tutti, la manutenzione e il riassetto del territorio p e. ma anche l'incremento del patrimonio edilizio pubblico per avvicinarlo almeno agli standard europei.

domenica 2 novembre 2008

COSA C'E' DENTRO LA 133 -I SOGNI TORNANO NELLE STRADE DI ASTI

Noi non pagheremo la vostra crisi. E quel “noi” è un noi studentesco ma anche un noi “di classe”. Un “noi” pronunciato dai precari in formazione che popolano le università, e a cui viene bloccato il futuro.

La legge 133/2008 contro cui è nato il movimento nelle Università italiane non è infatti solo una perfida invenzione della coppia Tremonti/Gelmini. È un approfondimento di un percorso iniziato ormai quasi venti anni fa e accelerato in tutta Europa con il cosiddetto “processo di Bologna”, che ha portato in Italia alla riforma del 3+2 di Berlinguer e Zecchino. Ed è un percorso ben inserito in una vecchia idea del capitalismo: socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

L’idea non è stata infatti quella di chiudere l’accesso alle università o di produrre semplicemente una loro privatizzazione. Le imprese preferiscono di gran lunga farne un uso privato con i soldi dello Stato. Ma lo Stato non deve spendere nulla più di quanto a loro necessario.

Il taglio previsto dalla 133 (addirittura del 20% del fondo ordinario, ossia un miliardo e cinquecento milioni dio euro) si aggiunge ai tagli più modesti ma continui fatti negli ultimi vent’anni, che hanno provocato un aumento delle tasse universitarie (passate dal 3% a circa il 12% del finanziamento complessivo), una diminuzione degli interventi per il diritto allo studio, un minor carico fiscale per le imprese e soldi liquidi da versare nelle casse di banchieri spregiudicati. Mai una diminuzione del potere dei “baroni”, come propaganda il Governo. Una redistribuzione al contrario, a cui la riforma del 3+2 aggiunge un’assicurazione sull’alto sfruttamento dei futuri lavoratori laureati. In un mercato del lavoro squassato dall’innovazione tecnica e organizzativa, con un’intensificazione dell’utilizzo di lavoro mentale – spesso più ripetitivo che creativo – il 3+2 non ha fatto altro che abbassare le speranze dei laureati sull’utilizzo effettivo nel mercato del lavoro delle competenze acquisite, e quindi anche sulle speranze di reddito e carriera.

In un mercato del lavoro in continua trasformazione sembrerebbe infatti insensato riuscire a programmare con l’anticipo di anni figure professionali specialistiche, e forse servirebbe una formazione ancor più complessiva, in grado di saper gestire situazioni flessibili e complesse. Al contrario il 3+2 ha pensato bene di specializzare in modo parossistico i corsi di laurea e i percorsi di studio, con il vero fine di differenziare i curriculum degli studenti per produrre laureati di serie A, B, C ecc, stracciando di fatto il valore legale del titolo di studio (prossimo obiettivo dichiarato da Governo e Confindustria) per abbassare ulteriormente le pretese contrattuali e salariali dei futuri laureati.

Non a caso le indagini di Almalaurea sui salari percepiti dai laureati del nuovo ordinamento è – a tre anni dalla laurea – inferiore ai 1.000 euro al mese. Niente di più e niente di meno del salario medio di un metalmeccanico. E così le imprese utilizzano i lavoratori mentali necessari alle nuove tecniche produttive – che spesso assicurano alti profitti – mantenendo bassi i salari. E la formazione – una volta a carico delle imprese – viene pagata direttamente dalle università che, con l’introduzione degli stage obbligatori per gli studenti, hanno creato un esercito di lavoratori gratuiti sempre disponibili.

Ma con la crisi alle porte tutto ciò non basta. Ed ecco la possibilità di trasformare le università in fondazioni di diritto privato (anch’essa prevista dalla 133), ossia esattamente l’esatto opposto di quello che vuole fare il Governo con le banche: Berlusconi – con l’assenso di Veltroni – è pronto a regalare miliardi di euro alle banche senza pretendere per lo Stato alcun diritto di voto e di gestione. Le aziende invece potranno entrare nei Cda degli Atenei, decidere quali figure professionali formare, dove fare gli stage gratuiti, quale ricerca fare. Il tutto spesso senza mettere una lira. È sempre la stessa idea perversa: socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

Rifiutarsi – insieme ai tanti altri soggetti sociali vittime di tale politica – di pagare la crisi è allora il primo passo per immaginare un’autoriforma dell’università. Un’università che rifiuti i contenuti e i tempi imposti dagli interessi di breve periodo del mercato, e che sia disegnata sui tempi di studio e formazione dello studente. Un’università dove si possa anche studiare con lentezza, dove possano studiare tutti e tutte, senza sbarramenti e frequenze obbligatorie, con un finanziamento straordinario del diritto allo studio e l’eliminazione delle tasse universitarie (come avviene in altri paesi europei: Germania, Grecia, Danimarca, Svezia). Un’università in cui le capacità critiche siano incentivate e non soffocate, e il sapere non sia ridotto a merce.

RACCOLTA FIRME PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE

Ci hanno imbrogliato per oltre 15 anni. Abolita la ‘scala mobile’ nel 1992 –l’unico strumento per difendere il potere d’acquisto- tutte le retribuzioni hanno perso mediamente 7.000 euro all’anno e ora il 20% di lavoratori e lavoratrici è sotto la soglia di povertà! Anche l’Istat ha riconosciuto che gli aumenti dei beni di maggior consumo sono da 3 a 5 volte più di quelli registrati.

Mentre i profitti di imprese, banche e assicurazioni hanno il tasso di incremento più alto d’Europa, i salari in Italia sono precipitati all’ultimo posto, anche con la complicità dei sindacati confederali che hanno contrattato al ribasso. Si è avuto un gigantesco spostamento di 120 miliardi di euro all’anno dai salari ai profitti e alle rendite (dati BRI, istituto dipendente dalla Banca centrale europea): per questo non si arriva a fine mese!!

Sinistra Critica avvia una campagna nazionale di raccolta-firme di massa per una Legge di iniziativa popolare, che sarà presentata in Parlamento, per:
  1. un Salario minimo intercategoriale di 1300 euro netti al mese
  2. un Salario sociale per tutti periodi di non lavoro e un Minimo previdenziale di 1000 euro
  3. la restituzione integrale del Fiscal drag : se ciò non avviene si attua un furto nelle buste paga, perché per effetto dell’aumento nominale dei salari (che non corrisponde al potere d’acquisto) si pagano più tasse di quanto dovuto dalla legge
  4. una nuova Scala mobile , nella forma del recupero automatico annuale del differenziale tra inflazione reale e inflazione programmata
I soldi ci sono, basta contenere i profitti, eliminando la riduzione del cuneo fiscale alle imprese deciso da Prodi (15 miliardi di euro in due anni!) e introducendo la tassazione al 20% delle rendite finanziarie per chi ha redditi superiori a 50.000 euro all’anno.
I nostri nemici non sono gli altri lavoratori – italiani o migranti che siano – ma i padroni che hanno fatto fortuna sia coi governi di centrodestra che di centrosinistra.

E' questo il pacchetto sicurezza che ci vuole!
sicurezza di poter campare decentemente!!

sabato 25 ottobre 2008

Il padrone che morde il cane


La Nuova Provincia è un giornale che ci ha sovente ospitati, sia come singoli che come associazione, dando spazio a punti di vista alternativi a quelli che normalmente si incontrano sui mezzi d’informazione.

E per questo che proviamo un profondo rammarico nel riscontrare, che anche su questo giornale, o almeno in alcune delle persone che lo scrivono, il razzismo strisciante, ormai sempre più diffuso, ha fatto breccia.

Nella fattispecie ci riferiamo all’articolo di cronaca pubblicato venerdì 17 ottobre in cui si riporta la notizia di un furto avvenuto nell’abitazione di un uomo di origine rumena. Poiché l’autore del furto era un italiano e la vittima era appunto rumena, lo sconosciuto giornalista (l’articolo non è firmato) non ha trovato niente di meglio che commentare il fatto con il famoso detto del “Padrone che morde il cane”. Evidentemente nello schema mentale di suddetto giornalista è apparso talmente ovvio che in un caso di furto il colpevole fosse il rumeno e la vittima l’italiano che al verificarsi del contrario l’avvenimento fosse così paradossale da meritare la citazione di tale metafora.

Benché a prima vista tale caso possa apparire ben poca cosa nei confronti di altri recenti casi di cronaca, come ad esempio quello del ragazzino marocchino picchiato nell’indifferenza generale, al contrario noi lo riteniamo un grave segnale, che indica quanto la propaganda razzista degli ultimi anni sia stata interiorizzata, tanto da trasformare dei luoghi comuni in verità oggettive. Un consiglio che ci sentiamo di dare allo sconosciuto giornalista e di andarsi a leggere l’ ottimo libro di GianAntonio Stella “L’orda, quando gli albanesi eravamo noi” , specialmente nella parte in cui si tratta la vergognosa pubblicistica con cui i nostri connazionali emigrati venivano attaccati e l’effetto nefasto che questa aveva sugli animi della popolazione autoctone nel fomentare l’odio e l’aggressione. Magari tale lettura potrà renderlo consapevole di quanto danno possa fare la parola scritta e quanto il mestiere di giornalista sia gravido di responsabilità.

venerdì 24 ottobre 2008

REGIME DEI SUOLI INSOSTENIBILE

Gli amministratori del comune di Cassinetta di Lugagnano hanno approvato un “piano di governo del territorio a crescita zero”, dunque un piano di riqualificazione urbana e non un piano di espansione. E' una buona notizia. Sta per costituirsi un comitato di tutela del territorio Roero-Langhe-Monferrato, che assume il territorio come un bene comune. E' un'altra buona notizia. Altri comitati con le stesse finalità si sono già costituiti altrove e se ne parla nel sito di Eddyburg (www.eddyburg.it), che vi consigliamo di visitare.

L'urbanistica tenta di sottrarsi allo strapotere delle corporazioni che si nutrono di rendita urbana e di spericolate operazioni finanziarie ? Sembra di si, e allora dobbiamo dare una mano affinché questo avvenga al più presto. Dobbiamo far giungere ai proprietari dei suoli e ai costruttori, nonché a tutta la loro corte di professionisti, l'idea che esiste un interesse pubblico al di sopra del loro tornaconto personale, l'idea che il progetto delle città e dei relativi sobborghi non è solo affare loro.

Sarà difficile rimontare la china perché ci sono voluti vent'anni di pratiche mercantili, di urbanistica contrattata, e di smantellamento delle leggi di riforma per approdare al disastro che abbiamo sotto gli occhi. Zone di espansione senza confini in cui le lottizzazioni si moltiplicano ben oltre una qualsiasi capacità insediativa del PRG, zone suburbane già duramente aggredite da interventi che nulla hanno a che fare con l'attività agricola, interventi simbolici del disastro come quello de “Il borgo” in cui si concentra il peggio della “città moderna”, vale a dire, colate di cemento e consumo di territorio, traffico e inquinamento.

Su tutto ciò, l'esclusione della maggioranza dei cittadini dal governo del territorio; una esclusione segnata pesantemente dal censo, se si considera l'abitare una delle funzioni principali dello statuto di una urbanistica degna di questo nome (ville e ville principesche, seconde case e interi stabili convertiti in valore finanziario per i ricchi, persino il carcere di via Testa riconvertito in residenza di lusso; bisogno abitativo insoddisfatto o negato per i ceti popolari).

Le dimensioni e le caratteristiche morfologiche del nostro Comune non sono paragonabili a quelle del Comune Cassinetta di Lugagnano, anche se i problemi là affrontati hanno la stessa origine dei nostri. Ma ciò che caratterizza quell'esperienza è la scelta di considerare le condizioni date come concause dei problemi. E' l'impegno e l'innovazione culturale e politica di quella scelta che dobbiamo cogliere, contro il realismo rozzo e interessato che da noi, per anni, ha dominato incontrastato.

Insomma non possiamo più accettare che le condizioni date (il prezzo altissimo delle aree libere, la mancanza di soldi per rinnovare i vincoli sulle aree a standard, l'utilizzo di una parte degli oneri di urbanizzazione per finanziare il bilancio corrente), siano la giustificazione di un PRG senza prescrittività, con previsioni lasciate alla voracità dei proprietari dei suoli e dei costruttori e con una flessibilità regolata a posteriori, fuori da qualsiasi programmazione. Non possiamo più accettare una contrattazione degli interventi in cui l'ente pubblico rinuncia a difendere l'interesse generale ed usa tecniche urbanistiche come la perequazione e i premi volumetrici solo per far crescere, a favore della rendita urbana, la capacità insediativa del PRG e dunque il consumo dissennato di territorio.

Qualche riferimento europeo può tornare utile per capire le origini più remote del disastro nazionale. Mentre in tutte le grandi città europee le amministrazioni hanno provveduto per anni ad acquisire preventivamente dei territori, per sottrarre l'attività pianificatoria al peso economico e ai condizionamenti sociali della rendita fondiaria, in Italia si è fatto il contrario e ultimamente si è legiferata la dismissione di beni demaniali “suscettibili di gestione economica”. Ad Amsterdam l'80 % del territorio comunale è demaniale; a Stoccolma il territorio demaniale è 3 volte quello comunale urbanizzato, tanto per fare degli esempi. In Italia si è espropriato solo per i quartieri di edilizia economica e popolare, in compenso la discussione sull'indennità di esproprio è durata ininterrottamente per decenni, da una indicizzazione del valore agricolo fino alla scelta del valore di mercato delle aree da espropriare, cioè fino a che la rendita fondiaria ha avuto partita vinta. Dura da decenni la discussione, legislatura dopo legislatura, su una legge “sul regime dei suoli”, che aggiorni quella del 1942, ma non se ne ancora fatto niente.

Ciò che il governo annuncia il questi mesi e in questi giorni, senza alcun senso del ridicolo ma la consueta capacità mistificatoria, è la definitiva consegna al “mercato” del governo del territorio. Ruscalla e soci ringraziano.