domenica 2 novembre 2008

COSA C'E' DENTRO LA 133 -I SOGNI TORNANO NELLE STRADE DI ASTI

Noi non pagheremo la vostra crisi. E quel “noi” è un noi studentesco ma anche un noi “di classe”. Un “noi” pronunciato dai precari in formazione che popolano le università, e a cui viene bloccato il futuro.

La legge 133/2008 contro cui è nato il movimento nelle Università italiane non è infatti solo una perfida invenzione della coppia Tremonti/Gelmini. È un approfondimento di un percorso iniziato ormai quasi venti anni fa e accelerato in tutta Europa con il cosiddetto “processo di Bologna”, che ha portato in Italia alla riforma del 3+2 di Berlinguer e Zecchino. Ed è un percorso ben inserito in una vecchia idea del capitalismo: socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

L’idea non è stata infatti quella di chiudere l’accesso alle università o di produrre semplicemente una loro privatizzazione. Le imprese preferiscono di gran lunga farne un uso privato con i soldi dello Stato. Ma lo Stato non deve spendere nulla più di quanto a loro necessario.

Il taglio previsto dalla 133 (addirittura del 20% del fondo ordinario, ossia un miliardo e cinquecento milioni dio euro) si aggiunge ai tagli più modesti ma continui fatti negli ultimi vent’anni, che hanno provocato un aumento delle tasse universitarie (passate dal 3% a circa il 12% del finanziamento complessivo), una diminuzione degli interventi per il diritto allo studio, un minor carico fiscale per le imprese e soldi liquidi da versare nelle casse di banchieri spregiudicati. Mai una diminuzione del potere dei “baroni”, come propaganda il Governo. Una redistribuzione al contrario, a cui la riforma del 3+2 aggiunge un’assicurazione sull’alto sfruttamento dei futuri lavoratori laureati. In un mercato del lavoro squassato dall’innovazione tecnica e organizzativa, con un’intensificazione dell’utilizzo di lavoro mentale – spesso più ripetitivo che creativo – il 3+2 non ha fatto altro che abbassare le speranze dei laureati sull’utilizzo effettivo nel mercato del lavoro delle competenze acquisite, e quindi anche sulle speranze di reddito e carriera.

In un mercato del lavoro in continua trasformazione sembrerebbe infatti insensato riuscire a programmare con l’anticipo di anni figure professionali specialistiche, e forse servirebbe una formazione ancor più complessiva, in grado di saper gestire situazioni flessibili e complesse. Al contrario il 3+2 ha pensato bene di specializzare in modo parossistico i corsi di laurea e i percorsi di studio, con il vero fine di differenziare i curriculum degli studenti per produrre laureati di serie A, B, C ecc, stracciando di fatto il valore legale del titolo di studio (prossimo obiettivo dichiarato da Governo e Confindustria) per abbassare ulteriormente le pretese contrattuali e salariali dei futuri laureati.

Non a caso le indagini di Almalaurea sui salari percepiti dai laureati del nuovo ordinamento è – a tre anni dalla laurea – inferiore ai 1.000 euro al mese. Niente di più e niente di meno del salario medio di un metalmeccanico. E così le imprese utilizzano i lavoratori mentali necessari alle nuove tecniche produttive – che spesso assicurano alti profitti – mantenendo bassi i salari. E la formazione – una volta a carico delle imprese – viene pagata direttamente dalle università che, con l’introduzione degli stage obbligatori per gli studenti, hanno creato un esercito di lavoratori gratuiti sempre disponibili.

Ma con la crisi alle porte tutto ciò non basta. Ed ecco la possibilità di trasformare le università in fondazioni di diritto privato (anch’essa prevista dalla 133), ossia esattamente l’esatto opposto di quello che vuole fare il Governo con le banche: Berlusconi – con l’assenso di Veltroni – è pronto a regalare miliardi di euro alle banche senza pretendere per lo Stato alcun diritto di voto e di gestione. Le aziende invece potranno entrare nei Cda degli Atenei, decidere quali figure professionali formare, dove fare gli stage gratuiti, quale ricerca fare. Il tutto spesso senza mettere una lira. È sempre la stessa idea perversa: socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

Rifiutarsi – insieme ai tanti altri soggetti sociali vittime di tale politica – di pagare la crisi è allora il primo passo per immaginare un’autoriforma dell’università. Un’università che rifiuti i contenuti e i tempi imposti dagli interessi di breve periodo del mercato, e che sia disegnata sui tempi di studio e formazione dello studente. Un’università dove si possa anche studiare con lentezza, dove possano studiare tutti e tutte, senza sbarramenti e frequenze obbligatorie, con un finanziamento straordinario del diritto allo studio e l’eliminazione delle tasse universitarie (come avviene in altri paesi europei: Germania, Grecia, Danimarca, Svezia). Un’università in cui le capacità critiche siano incentivate e non soffocate, e il sapere non sia ridotto a merce.

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