Da qualche tempo a questa parte, si prova un terribile fastidio leggendo, in interviste o commenti sull'attualità, le parole dei “dirigenti” della diaspora di RC. A differenza del passato, quando questo partito era un carico di promesse per molti militanti e il riferimento di una opinione politica non trascurabile, si fa fatica anche solo ad interloquire. L'impressione che domina e rende difficile l'avvio di un discorso è che parlino d'altro, alcuni come se nulla fosse successo, altri con una idea tutta notarile della crisi della sinistra. Perché è della crisi che si dovrebbe parlare, tentare di rispondere a domande e incertezze, dare senso a quel che accade senza cedere alla vulgata e agli ideologismi.
E' vero che scontiamo tutti gli effetti di una sconfitta storica e dunque anche il corso delle cose e delle idee imposto dai nostri avversari negli ultimi decenni, ma dovremmo anche soffermarci sulla incapacità che ne è seguita di fare un “buon uso delle macerie” (Fortini). L'esempio più prossimo, la partecipazione di Rc al governo di Prodi. Si può sottoscrivere il programma di guerra più impegnativo dalla Liberazione ad oggi senza vendere l'anima al diavolo ? Si, si deve prima evocare il diavolo, in questo caso Berlusconi, il neoliberismo/guerra, e poi agire di conseguenza, vale a dire con gli spergiuri piuttosto che con l'intelligenza politica. Si può essere così coatti da non riuscire a mettere in moto un dibattito vero tra qualche migliaio di militanti ? Si, si deve prima imbalsamare il libero dibattito in rapporti di potere. Vien voglia di dire “il potere corrompe”, suona troppo moralistico ma l'affermazione suscita reazioni più positive di tante altre in cui gli aggettivi vengono usati come clave sulla testa dell'avversario. Già questo genere di riflessioni, in particolare quelle sulla natura della crisi della sinistra, dovrebbe in qualche modo (dibattiti, seminari, letture) far parte del nostro impegno.
Le conclusioni che si possono trarre da questo approccio, sono sinteticamente, le seguenti.
Ci muoviamo come minoranze, piccoli gruppi di intellettuali senza egemonia, le cui parole restano senza eco perché non sono in sintonia con la cultura dominante e con il senso comune. Allora il nostro parlare deve essere un altro racconto delle cose, il frutto di una cura assidua del linguaggio e dell'inchiesta, l'altro punto di vista che la stessa realtà sociale rende possibile.
Siamo alle prese con un nuovo inizio e allora dobbiamo essere assolutamente attenti ai conflitti che già adesso, su tutto il pianeta, sono il laboratorio del pensiero (linguaggio, immaginario) e dell'azione (forme, finalità, risultati) di chi si oppone per necessità di vita e di libertà, all'ingiustizia, alla regressione sociale, alla soppressione delle condizioni “naturali” dell'esistenza. Il nuovo inizio non può essere il prodotto delle accademie, non ha un istante zero, è dentro un processo che può prendere una infinità di direzioni.
Dobbiamo fare dei percorsi (non solo delle campagne elettorali) in cui sperimentare, su tutto lo spettro dei comportamenti umani (dal modo di consumare, di stare insieme, di organizzarci per una finalità pratica, di rappresentarci, di divertirci e di raccontarci), l'idea e dunque la pratica di una alternativa di società. Dobbiamo fare dei percorsi, interessati all'effetto accumulo, senza la fretta di definire a priori un “programma generale” o un modello generale.
Da queste prime conclusioni trarne altre non è difficile.
Dobbiamo “vederci”, essendo persone o gruppi, collettivi ed altro, come i protagonisti di una attività sociale, modesta quanto si vuole, portatrice di una critica, meglio ancora di un conflitto, piccoli quanto si vuole. Dobbiamo vederci come sperimentatori che riflettono sulle loro azioni e ne fanno bilanci e le raccontano ad altri favorendo relazioni inclusive. Chi organizza i GAS (gruppi di acquisto solidali) può far vivere relazioni con chi organizza un picchetto antisfratto, o chi organizza un evento “culturale”. Una lettura collettiva o una prova di teatro possono fornire utile materiale immaginario a chi sogna un'altra società, assai più di un direttivo di partito.
Quando diciamo partire dai contenuti, dobbiamo partire senza dissociazioni, sapere di che cosa stiamo parlando, essendo il più possibile vicini alla realtà di cui stiamo parlando. In relazione di “simpatia” con le persone che frequentano quella realtà, dobbiamo liberare le potenzialità che il neoliberismo annuncia ogni giorno e subito nega. Banalizzando (sull'opulenza e il fai da te), se nella quarta settimana io operaio di fabbrica o lavoratore intermittente o socio di cooperativa a tempo parziale non ho di che pagare il latte, il pane e un quotidiano (possibilmente il Manifesto) me li prendo, me ne riapproprio perché sono il frutto del mio “lavoro”. Già accade e le relative azioni vengono descritte come furti (nei bilanci dei supermercati). Il passo da fare è di organizzarle come azione collettiva e descriverle come riappropriazione del maltolto.
Questo “movimento” di singoli e collettivi, che muove da bisogni e valori negati per riaffermarli subito, che si racconta con un proprio linguaggio, che sceglie le forme del proprio esserci, dobbiamo intenderlo come una insopprimibile propedeutica alla politica, non un surrogato e nemmeno un complemento. “La sinistra o sarà sociale o non sarà” (Revelli). Questo per dire che la politica è una assunzione di responsabilità, un mettere in comune, un moltiplicare le buone relazioni; è l'idea che il governo/autogoverno della società è già all'ordine del giorno ma, allo stato presente delle cose, non può procedere dalla presa elettorale dei Parlamenti. E se il sogno è una alternativa di società, la società non può che essere di liberi ed eguali.
Quando diciamo partire dall'opposizione, dobbiamo intendere l'opposizione a quel che ci impone il neoliberismo, la guerra in primo luogo, le regressioni sociali, la soppressione delle condizioni “naturali” dell'esistenza e se questa opposizione deve assumere una forma politico/istituzionali lo deve fare senza negare se stessa in un realismo privo di valori e di principi. Il che vuol dire due cose, il luogo della politica nel senso fin qui detto, non è solo nelle istituzioni, è soprattutto nella società e nel comportamento delle persone che la compongono; inoltre non c'è nessuno che ha il monopolio della politica. Banalizzando, se il sindaco del Comune di Frinco ci propone una esperienza di democrazia partecipata, insieme all'idea che l'acqua e il suolo sono beni comuni, non fa nulla che si dichiari del PD, si condivide la sua proposta.
Con questo approccio ci interessa un percorso di formazione di un soggetto politico, di una assemblea di agitatori sociali, che vuole moltiplicare le sue buone relazioni, dare più forza alle azioni che già fa, e rappresentarsi nelle istituzioni. Questo soggetto politico non può essere nessuno dei partiti presenti, non può essere il riciclaggio del presente ceto politico e, ovviamente, non può avere come bussola l'elettoralismo e tutte le sue pratiche.